Quando dalla metà degli anni ’70 e ancora negli anni ’80 e ’90 un fiume di eroina tracimò da chissà dove in ogni paese, in ogni città, in ogni angolo d’Italia portandosi via ragazzi e ragazze a decine, a centinaia, a migliaia, lo Stato aveva altro a cui pensare.
Non fu disattenzione, cecità politica soltanto, fu un accantonamento, una rimozione tutt’altro che involontaria, e non solo a livello istituzionale, ma anche largamente condivisa dalla “gente comune”.
Il tossico è qualcuno che se l’è cercata, che ha creduto di poter nuotare in quel fiume, di poter controllare quella che all’inizio pare una immersione quasi battesimale, salvifica, liberatoria di ogni tensione, di ogni inadeguatezza, di ogni conflitto, di ogni bisogno o dolore… e c’è rimasto intrappolato.
E insieme a lui, la sua famiglia, tutta, padri, madri, fratelli e sorelle, amici, tutti traditi, tutti derubati, tutti stupiti, disperati. Tutti intrappolati.
Che se la vedano tra di loro, che se la cavino da soli se possono, non si può fermare chi non ha altra ragione di vita che distruggere la vita sua e degli altri…
Allora chi si occupa di questi ragazzi, di queste ragazze, chi dà loro una possibilità, chi ha un progetto di salvezza per loro, chi più semplicemente li accoglie, o anche solo li ascolta?
Ce ne sono state di persone così, persone che davanti allo spettacolo insopportabile di tutte quelle persone disperate che passavano davanti a quella porta, non ha aggiunto una mandata alla serratura, ma ha aperto quella porta e i ragazzi sono entrati con le loro gambe stanche, in braccio alle madri e alla loro disperazione, trascinati magari, con gli occhi spenti e insieme avidi di chi non è più padrone di se stesso.
Ce ne sono state persone così: qualcuno ha fallito, qualcuno si è confuso, qualcuno ha mostrato di tenere più a sé che a chi accoglieva, qualcuno ha trasformato questa accoglienza in un business salendo spesso agli onori e ai disonori della cronaca.
Ma i più, certamente i più, l’hanno fatto per amore, per misericordia, per lenire, per prendersi cura.
Sbagliando, inciampando, tentando, operando giorno dopo giorno hanno creato una sponda, una riva asciutta sul bordo di quel fiume d’eroina diventata un lago grande come tutta Italia.
Un luogo, due, dieci cento luoghi nei quali poter rifiatare, nei quali cercare in mezzo ai giorni cattivi dei momenti buoni, in mezzo agli errori una strada meno accidentata, dove soprattutto quei ragazzi e quelle ragazze sono tornati ad essere a tutti gli effetti degli esseri umani degni di ascolto, di attenzione e d’amore.
“Ho fatto un sacco di casini nella vita, ma alla fine, sono stato amato”.
“Una ragionevole felicità” è la storia di tanti di quegli uomini e di quelle donne, è la storia di una “famiglia nuova”, una sponda, una riva, un banco di sabbia, un uscio aperto, per entrare e per uscire, per domandare, ma anche per stare in silenzio, per stendersi in mezzo alla polvere vinti dalla disperazione e sentire che qualcuno si stende accanto a te, si sporca come te di quella disperazione, e ti dà una mano a rialzarti, si prende i tuoi giorni cattivi e condivide i tuoi momenti buoni.
“Una ragionevole felicità” è la storia del fondatore, ideatore, padre, di “Famiglia nuova”, di un prete, Don Leandro Rossi, della sua intelligenza fervida, inesausta, pragmatica e insieme illuminata, della sua scelta per gli ultimi, del suo conflitto con la sua diocesi e con la paludata chiesa ufficiale che lo allontana e lo ripudia, del suo lavoro, delle sue idee, del suo pensiero aperto, spalancato come la sua porta, della sua fedeltà al vangelo degli ultimi e dei diseredati, delle sue comunità per tossicodipendenti, del suo centro per l’assistenza ai malati di AIDS, che della tracimazione di quel fiume di eroina fu diretta conseguenza.
“Una ragionevole felicità, sono le parole e le storie di chi lo conobbe bene, di chi lo scelse come mentore, amico, compagno di strada, di chi soprattutto da lui si fece scegliere.
“Una ragionevole felicità” è un racconto di accoglienza ma anche una testimonianza di come si possa sempre cambiare strada nella vita, sempre. Basta che qualcuno creda in te, basta che qualcuno ti apra una porta, ti indichi tutte le altre mille possibilità che ci sono nella vita, per tutti.
Il racconto va quindi oltre quel tempo e quelle storie e ci accompagna a scoperchiare anche quelle domande e quelle problematiche che esistono e feriscono e dividono tuttora: certe posizioni della Chiesa, certe discriminazioni incomprensibili, certe scelte che pare vadano nella direzione opposta a quella che un pensiero accogliente e integrante come quello del Vangelo dovrebbe prendere.
“Ogni epoca ha i suoi ultimi e noi dobbiamo andarli a cercare, dovunque siano: nelle strade, in mezzo al mare. Un prete deve camminare dove cammina il vivere, questo dice il Vangelo”
E chi fa una scelta così, indietro non può tornare.
Che dalla vita, indietro non si torna.
—
“Una ragionevole felicità. Ritratti di Leandro e Famiglia” di e con Silvia Frasson.
a Lodi, sabato 7 agosto, Chiostro San Cristoforo, Palazzo della Provincia, via Fanfulla 14, nell’ambito della rassegna “Lodi al sole. Suoni, colori, parole”. Ingresso libero dalle ore 21.00; inizio spettacolo ore 21.30.
Arrangiamenti musicali di Andrea Checcucci e Stefano Rachini.
Una produzione rumorBianc(O) in collaborazione con Famiglia Nuova.