don Leandro Rossi
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Breve biografia di don Leandro Rossi

Don Leandro Rossi nasce a Guardamiglio (Lodi) il 3 Agosto 1933 da una famiglia contadina. Viene ordinato prete il 15 Giugno 1957. Si laurea due volte: in Diritto Canonico e in Teologia Morale. Da subito don Leandro deve far fronte alla difficoltà di conciliare la propria formazione teologica tradizionale con la personale propensione ad accogliere un mondo in trasformazione.

La sua formazione è antecedente gli anni del Concilio Vaticano II (1962 – 1965) prima quindi che si iniziasse a promuovere il dialogo tra le religioni, la messa in italiano anziché in latino e la possibilità per il prete di rivolgersi ai fedeli invece che al tabernacolo durante la funzione. D’altro canto il mondo attorno a don Leandro cambia molto più velocemente di quanto sia in grado di fare la Chiesa: pensiamo agli anni ’60: i grandi movimenti di massa, la contestazione…

Don Leandro sceglie di aprirsi al mondo e lo fa da prete: cerca di portare il suo entusiasmo alle generazioni future di sacerdoti insegnando presso il seminario di Lodi Teologia Morale e presso lo studentato teologico del Pime a Milano; non solo: scrive e pubblica libri, saggi e articoli alcuni di carattere scientifico (Dizionario enciclopedico di Teologia Morale, ed. Paoline 1973), altri di carattere divulgativo per arrivare ai più (Il piacere proibito; i Tabù della storia della Chiesa, ed. Marietti).

Non dobbiamo però pensare don Leandro come a un sovversivo: da uomo di Chiesa è sempre rimasto fedele alla morale e all’impostazione etica della Chiesa; con la sua opera ha cercato a volte in modo provocatorio, a volte in modo critico di portare l’Uomo a interrogarsi su temi, forse probabilmente scomodi come la sessualità prima e dopo il matrimonio, la castità per gli omosessuali, l’aborto e il divorzio.

Già in quegli anni don Leandro divide… iniziano le prime contestazioni da parte della curia. Già nel 1968 “benedicendo la pillola contraccettiva” viene dimesso dall’incarico ufficiale di teologo e “allontanato” in una parrocchia di una piccola frazione vicino a Lodi (Tormo di Crespiatica). Fermo al suo voto di obbedienza, don Leandro non si oppone a tale decisione: diviene parroco di tre piccole parrocchie e continua l’insegnamento della religione negli istituti pubblici parificati.

A un certo punto, la svolta: nel Natale del 1977 nella piccola chiesa di Cadilana (Lodi) accoglie il primo tossicodipendente e inizia cosi l’avventura nell’accogliere quelle “pietre scartate che sono diventate testata d’angolo”, in quegli anni gli ultimi tra gli ultimi e quanti chiedessero un rifugio. A questo punto don Leandro inizia a rimanere solo: chi mai voleva vivere vicino ai tossici? D’altra parte la curia nel 1994 invita don Leandro a una scelta precisa: o la parrocchia o la comunità; le due cose appaiono alla curia inconciliabili poiché la cura dei tossicodipendenti avrebbe sottratto tempo alle esigenze parrocchiali.

La scelta appare scontata. “Mio caro vescovo, la presente per assicurarle che il 06/06/1994 lascio la parrocchia di Cadilana, conformandomi alla sua volontà. L’aut-aut tra comunità e parrocchia mi sembra poi un chiaro pretesto per farmi lasciare i parrocchiani che servo da venti anni (tre come supplente). Inutilmente vi ho chiesto il perché, dal momento che per me non aveva un senso, se non a rovescio. Come spiegherebbe a giovani adulti, intelligenti e smaliziati che il vescovo li sfratta, magari per mettervi altri? In questa occasione sento forte il “Tu es sacerdos in Aeternum!” con buona pace delle curie. Il mio servizio sacerdotale a favore degli ultimi sarà ancora più prezioso, ora che ne condivido la sorte e l’emarginazione. Non Le serbo nessun rancore. È giusto che la libertà (del bene) vada pagata. Ora non avrò altro Padre che Dio nei cieli e altra fiducia che quella della Divina Provvidenza. Ma è giusto che la verità vada proclamata senza paura. Cerco di ispirare sempre più la mia vita alla semplicità evangelica e all’autenticità della coscienza. Rinuncio a chiedere qualcosa per me dopo 51 anni di servizio, sarebbe inutile. Che Dio ci benedica tutti”.

Don Leandro fonda sette comunità per il recupero dei tossicodipendenti anche grazie all’aiuto economico dei fratelli e impegnando l’eredità del padre per comprare il primo immobile. Nel 1997 si manifestano i primi sintomi del Parkinson. Il Vescovo di Piacenza (don Luciano Monari) lo accoglie nella curia piacentina: dapprima vive presso la sua comunità San Bernardino di Borgonovo Val Tidone e successivamente lo nomina parroco a Gazzola.

L’impegno di ricerca aperto alle nuove correnti di pensiero portano alcuni membri della Chiesa a prendere le distanze da un uomo così discusso; l’ostilità verso le comunità per battaglia per promuovere l’accettazione del diverso e dell’emarginato e per consentire ai suoi ragazzi di reinserirsi in un contesto sociale. Infatti secondo l’utopia di don Leandro il tossicodipendente non è un problema da allontanare dalla società per farlo guarire, ma una persona che ha in sé le potenzialità per emanciparsi dalla tossicodipendenza e reinserirsi nel mondo.

Nonostante la malattia non rinunciava al dialogo, al confronto con tutti, in particolare con il suo direttore spirituale Don Gino Piccio. Il loro incontro generava sempre festa, faceva nascere una discussione energica, infondeva speranza in un domani di giustizia e pace.

Sebbene uomo forte e ispirato dalla convinzione di mettere in pratica gli insegnamenti del Vangelo, don Leandro inizia a sentirsi stanco. Nel luglio 2000 lascia la parrocchia si San Lorenzo martire a Gazzola (Piacenza) a causa dell’avanzare della sua malattia che dapprima lo rende inabile a livello motorio e successivamente anche a livello cognitivo.

Si spegnerà tre anni più tardi a Crespiatica (Lodi) il 30 giugno 2003, in una delle sue Comunità assistito da chi ha creduto in lui condividendone l’opera, che sommessamente, cerca di continuare avendo come punto di riferimento i valori comunicati.

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Il testamento morale di don Leandro Rossi

La Chiesa lodigiana cui appartengo non mi ha mollato, ma mi ha dato un incarico che si può tradurre così: l’avvocato dei poveri. Di fronte alla Chiesa lodigiana e italiana che si interrogano sul Vangelo della Carità, per poter essere io credibile nello svolgimento del mio compito, sento il bisogno di fare un pubblico esame di coscienza. Chiedo, pertanto, perdono ai poveri.

  1. per aver difeso (come cattolico e come moralista) la proprietà privata dei ricchi che l’avevano, più del diritto ad accedere alle proprietà dei poveri, che non l’avevano. Non conoscendo i Padri della Chiesa che dicevano “se sei ricco, o sei ladro tu o lo sono stati i tuoi avi”;
  2. per non aver fatto autenticamente per tanto tempo l’opzione dei poveri, scambiando per retorica l’annuncio evangelico portato ai poveri, credendolo puramente consolatorio;
  3. per aver fatto la carità con degnazione, convinto di privarmi di qualcosa di mio, mentre non facevo che ritornare loro per giustizia quanto era stato loro sottratto;
  4. per averli resi solo oggetto delle mie attività di beneficienza, invece di considerarli soggetti capaci di partecipare attivamente alla loro promozione umana e sociale;
  5. per aver pensato che la salvezza (nella Chiesa e nel mondo) venisse dall’alto, mentre viene dal basso: dai poveri come Cristo, dalle altre “pietre scartate che sono diventate testata d’angolo”;
  6. per non aver tratto tutte le deduzioni politiche dalla scelta preferenziale per i poveri, credendo di poter conciliare la scelta di centro, moderata, con l’opzione per loro. Con don Milani dovrò dire anche politicamente: “non mi si può costringere a stare con i poveri senza Dio, o con Dio senza i poveri”. Li debbo scegliere sinceramente entrambi, senza quadratura del cerchio;
  7. per tutte le volte che ho fatto l’avvocato dei poveri come un avvocato d’ufficio.

E fate festa quando chiudo i giorni terreni per passare ad altra vita, quella beata.

Borgono Val Tidone, 31 ottobre 1995

Don Leandro Rossi